Ho rimandato per anni la più importante delle decisioni.
Quella di essere responsabile per la mia vita. Ho rimproverato per anni i miei genitori, accusandoli di non avermi donato un’infanzia felice e di non avermi supportato nei momenti in cui ne avrei avuto davvero bisogno. Anche a livello economico.
Ho accusato le mie origini e il mio luogo di provenienza, ho accusato il mio partner in ogni relazione, ho accusato i miei soci nel lavoro.
Avrei dovuto decidere da tempo di puntare su di me, invece di proiettare su tutti loro la colpa delle mie difficoltà.
Per anni, la presunzione di essere una persona molto intelligente e capace mi ha accecato davanti a quelle che invece erano reali incapacità.
Ero incapace di portare avanti un’idea o un progetto fino alla sua realizzazione.
Mi bastavano i primi successi per sentirmi appagato. Le prime vittorie mi saziavano al punto da non aver ulteriore fame di risultati e finivo con il perdere le partite più importanti, e l’intero campionato.
Sono stato per decenni un’incostante e un procrastinatore cronico.
E ho giustificato ogni sconfitta proiettando le mie colpe su altro ed altri.
Ho pagato con un prezzo molto alto queste caratteristiche che – strano e paradossale dirlo – erano generate dal mio eccesso di ottimismo.
L’ottimismo può essere molto negativo lo sapevi?
Beh, il mio lo è stato. Mi ha portato a sottovalutare tutto ciò che sarebbe stato necessario fare: ho mollato quando avrei dovuto tener duro.
Ho evitato di affrontare degli argomenti, delle persone e delle situazioni quando invece avrei dovuto impegnarmi a risolvere, anche solo comunicando in maniera più appropriata invece di chiudermi nella mia caverna.
Ho rimandato la decisione più importante, quella di guardarmi dentro in maniera onesta.
Oggi comprendo che non ne avevo avuto mai il coraggio.
L’ho rimandata fino a quando non ho toccato il fondo e allora, anche il mio inguaribile ottimismo non è più riuscito a risollevarmi.
Guardare avanti non mi è stato più possibile. Era troppo dura farlo dopo aver perso la possibilità di stare con i miei figli e aver perso la dignità davanti ai loro occhi.
Se pur ancora piccolini, so che hanno subito il mio modo di essere e di fare e anche se dopo sono rinsavito, gli ho chiesto scusa e mi sono risollevato, questa cicatrice non mi abbandonerà per il resto della mia vita.
Anzi, la custodisco con cura come si custodisce un trofeo. Di una sconfitta in questo caso. Per ricordare a me stesso di quanto sia stato incapace e irresponsabile.
Certo, non posso dire che sia stata tutta colpa mia. Ad un certo punto della mia vita, quando mi sono accorto di avere dei blocchi emotivi che sabotavano le mie scelte e i miei comportamenti, non me ne sono stato lì a guardare.
Ho compreso che la mia educazione, il mio modello del mondo avevano delle enormi falle e che non mi avrebbero mai permesso di realizzare il mio ideale di vita.
Così mi sono impegnato ad aumentare la fiducia in me stesso. Soprattutto quando ho capito che il mio super ottimismo era una strategia di fuga dalle mie paure, non un punto di forza, come pensavo. Nascondeva le mie fragilità, mostrandomi agli altri nella mia “facciata” positiva.
Chi ero veramente? Non lo sapevo più.
Il dualismo della mia personalità, vincente-perdente mi faceva muovere a zig zag e su e giù. Ho attraversato valli molto profonde e raggiunto vette molto alte, ma all’età di 30 anni, sono precipitato giù negli abissi.
L’ho visto in dei film, in delle scene in cui il protagonista si risveglia dopo alcuni giorni di agonia e nel riprendere conoscenza, percepisce il mondo in modo velato, sfocato e anche l’eco delle voci vicine sembra provenire da molto lontano.
Ecco, al risveglio, questa vocina mi diceva: < Dario non puoi permetterti il lusso di mollare >. In effetti, nel profondo dell’anima, non ho mai contemplato il fallimento definitivo.
Ho provocato e accettato molti fallimenti, ma non ho mai contemplato il fallimento definitivo. Nel mio immaginario, ho sempre pensato di poter ripartire e soprattutto di dover ripartire.
Sì, uno strano senso del dovere a tutti i costi.
Ma poi, dovere per chi, per cosa?
Fino all’età di 27 anni, avrei detto per me, perché lo merito, perché so di valere, perché è giusto che io realizzi le mie aspirazioni. Con la nascita di Alessandro e poi di Lorenzo, 23 e 19 anni fa, non l’avrei più fatto solo per me.
Allora, solo allora, ho smesso di rimandare. Ho preso la decisione definitiva di essere il meglio che potessi essere.
E con quella decisione ho anche compreso che non avrei più mollato.
L’incostanza era una caratteristica della mia personalità che da lì a poco, con la forza di volontà e con l’allenamento, si sarebbe trasformata nell’abitudine più potente che avessi mai potuto creare: mantenere le promesse fatte a me stesso.
Agire con costanza e disciplina fino al successo. Non mi sarei più fermato alle prime vittorie. Avrei finalmente vinto il campionato. I campionati della mia vita.
Dopo alcuni anni, queste tre peculiarità che mi avevano accompagnato in passato (indecisione, procrastinazione e incostanza), hanno lasciato il posto ad una persona pienamente responsabile.
Ecco cosa intendo io per responsabilità:
una volta compreso essere io l’artefice dei miei insuccessi, ho studiato e lavorato per costruire un metodo (dentro di me) che mi garantisse di liberarmi dei blocchi emotivi, che mi permettesse di vivere serenamente, riducendo lo stress e rinforzando la fiducia in me stesso.
Avrei così aumentato la mia capacità di prendere decisioni e agire con metodo e costanza
Da lì a 5 anni, parlo del lontano 2002, la mia vita ha vissuto la svolta che desideravo.
Ne sono passati quasi 20 di anni e 14 anni fa ho deciso di condividere quel Metodo con tutte le persone che come me avrebbero avuto la volontà di superare le proprie difficoltà.
E in questi giorni ho deciso di tenere un incontro su quella che definisco la Triade del successo e della libertà dai condizionamenti.
Un evento Live dal titolo “Come non rimandare le decisioni ed essere costante nelle tue azioni”.
Dario Perlangeli